Sembra ancora di sentire il rumore, le urla degli operai, i carrelli che scaricano materiali, i forni accesi. E poi un suono stridulo sopra al fracasso di sottofondo, si è rotto un barile di acido solforico, tre feriti gravi, un morto. Altri due ne moriranno in ospedale.
Quante storie ha da raccontare un vecchio stabilimento industriale, quante vite transitate in 100 anni, alcune andate, alcune rimaste per sempre qui, tra l’aria satura di sostanze chimiche nocive per qualunque forma di vita.
Ma questa storia non è una storia lontana, non è una storia diversa da quella di migliaia di posti sparsi nel mondo: è la storia della ricerca del profitto a scapito dell’ambiente, a scapito della vita. Sono le decisioni prese da qualcuno che si trova lontano, altrove, al sicuro.
Si parte agli inizi del 1900 distruggendo un gioiello paesaggistico e iniziando ad inquinare un habitat che fino ad allora era rimasto incontaminato. Nasce un agglomerato urbano intorno alla fabbrica, operai e famiglie cadono nel peggiore degli inganni: sono disposti a tutto pur di lavorare.
Ma la vita è una e se per lavorare devi stare ore e ore in un ambiente altamente inquinato è quasi certo che ti ammalerai gravemente.
Loro, gli operai, devono mangiare e così i loro figli, e così le loro mogli. Tutti spinti dalla fame in una roulette giornaliera, una sfida al destino, una partita contro la morte. Ma la morte e il tempo, si sa, hanno il potere di cancellare tutto ciò che si trova in bilico, in un equilibrio precario.
Ora sono qui, tra questi silos, in questi capannoni, su queste impalcature, tra gli acidi che hanno bruciato i loro ultimi respiri. Sono evanescenza. Sono un passato che sbiadisce e si dimentica. Sono una memoria persa. Sono l’inganno del peggior baratto: un pezzo di pane e una fettina di morte!